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Alpinismo al femminile

Donne contro

Quest’anno è venuto giù un pezzo dello Yosemite,  è vento giù un pezzo di Cengalo,  con tragiche conseguenze, sono venute giù anche un pezzo di val Gardena e di valle Brembana. Qualche milione di anni fa è venuto giù anche il  Diavolo che doveva essere una montagna grandiosa ma che si è spezzata in due e così ora abbiamo anche il Diavolino appoggiato li di fianco al fratello maggiore, sangue dello stesso sangue o meglio, potremmo dire, della stessa roccia. Per non essere da meno il vallone del Trobbio e  Coca, in tempi più recenti, ma sempre di milioni di anni si tratta, si sono aperti in due lasciando fuoriuscire una lunga “scimitarra” di color verde chiaro e larga non più di un metro: è il filone di porfirite che li solca, noto solo ai geologi ed a qualche sparuto appassionato di buona volontà. Queste però sono cose da geologi, vi sono tuttavia situazioni legate ancora alle montagne ma che richiederebbero invece l’intervento, questa volta, degli psichiatri per spiegare gli strani fatti che andremo a narrare.

Da tempo immemore o quasi ho nello scaffale: Big wall climbing, che in italiano suona: Le grandi pareti, scritto da Dougt Scott e pubblicato nel 1973. La narrazione inizia presentando Grohmann, Zsigmondy, Innerkofler, Piaz, tutti i grandi insomma e così via con tanti eccetera eccetera arriviamo sino a Cassin, Bonatti, Magnone, Buhl, Maestri, Desmasons, si prosegue con Don Whillans, Harling, Bonnington, Terray e dopo altrettanti eccetera compare ovviamente anche Mesner che ha già perso il fratello in quella che potremmo definire una solitaria  a due sul Nanga Parbat (1970), salito il suo secondo ottomila: il Manaslu (1972)  ed  ha scritto anche i prime tre dei suoi oltre sessanta libri di montagna: Ritorno ai monti (1971), Il sesto grado (1973), Manaslu (1973) e forse non sta ancora pensando all’Everest senza ossigeno (1978) e tanto meno in solitaria (1980).

In Big wall climing si parla di imprese eroiche e sconcertanti, con un crescendo entusiasmante, di tecnica che evolve in maniera strepitosa e di materiali che permettono di tramutare qualsiasi impensabile sogno in pura realtà. Ai tempi  non me ne ero ancora accorto, ma confesso, neppure  di recente, preso dalla foga di leggere in fretta: nella mia mente di “maschio” non si era ancora aperta alcuna finestrella, nessun “allert” si direbbe ora, che suggerisse: ma le donne, le alpiniste intendo, dove sono? Esistevano? Nel libro così accuratamente descritto non ne compare neppure una, neanche per sbaglio. Per questo accomuno i geologi agli artefici della mente umana, perché il pensiero dell’uomo (e di conseguenza le sue azioni), è stato per secoli  più oscuro ed impenetrabile della dura roccia, accompagnato da enorme egocentrismo, vagonate  di super io e da “ottomila” iperbolici di cecità assoluta espressa nei confronti della controparte femminile.

Arantza Lopez Maragun,  alpinista spagnola, nel 2003, con corde ribelli, apre una piccola ma appassionante e chiarificatrice finestra sull’argomento, come  anche “250 anni di storia e di cronache, pubblicato dal CAI nel 2009, che descrive la storia alpinistica in maniera decisamente accattivante colmando in parte quella lacuna alla quale mi riferivo; ma se volessimo qualche cosa di più approfondito? Non vi sono molte speranze visto che recentemente è stato scritto un libro sull’alpinismo femminile, ma è il testo, sic, sic è in tedesco anche se l’autrice è trentina.  

Una tragedia – Nel 1974, appena un anno dopo la pubblicazione di Big wall climbing, si compie quella che potremmo definire il più grande dramma alpinistico in campo femminile: otto alpiniste muoiono congelate, una dopo l’altra, in ventidue ore,  poco sotto la vetta del  Pik Lenin, 7134 m. in Pamir. Al loro comando vi è Elvira Sataeva già sfinita da mesi di scontri con la rigidissima nonché labirintica e nevrastenica burocrazia russa. Il bel tempo è dato per otto giorni, le alpiniste partono  ma  non sono equipaggiate adeguatamente, i materiali migliori, guarda caso, li hanno già accaparrati gli uomini, loro si debbono arrangiare  alla belle meglio con attrezzi ormai grossolanamente obsoleti.  A 6500 metri si fermano per un fantomatico giorno di riposo, la cosa è  insolita, forse un primo allarme, o semplicemente e caparbiamente le alpiniste non vogliono usufruire degli aiuti di altre cordate: desiderano cavarsela da sole: ma questo non lo sapremo mai. L’ufficiale incaricato di seguirle non se ne cura  e non avvisa neppure  i superiori, magari si sente sminuito nel dover seguire una cordata di tal genere. Nel frattempo le condizioni meteorologiche cambino drasticamente, alle altre cordate immediatamente viene dato l’ordine di ritornare ma inspiegabilmente non alle alpiniste. Quel giorno di riposo loro sarà fatale.

Sono partite  il 30 luglio ed il 5 agosto arrivano in vetta ma la bufera le ferma. La notte del 9 il vento lacera tende e i sacchi da bivacco, non hanno  pale per scavare, il combustibile per i fornelli è terminato e sulla via del ritorno non vi sono corde fisse: resistono ormai da troppo tempo e sono, come sul dirsi, allo stremo. Le squadre di soccorso non possono partire anche se al campo base brulicano 200 persone compreso Vladimir Sataev, il marito di Elvira, che assiste impotente e conserva il silenzio assoluto sull’accaduto per anni: perché? Anche questo non lo sapremo mai.

Sin dall’inizio – La prima donna che salì il monte Bianco nel 1808 fu Marie Paradis, cameriera in una locanda di Chamonix. Le cronache raccontano che venne trascinata mezza morta in vetta e lei non smentì mai tale versione, ma se si raggiunge la vetta del monte Bianco bisogna anche tornare indietro e la cosa non si può fare se alcuni  componenti della cordata  manifestano segni di sfinimento: si arriva in cima e poi con buona probabilità ci si ferma li per sempre. La Paradis invece torno indietro e riprende tranquillamente il proprio lavoro: tenendo conto inoltre che era si abituata alle fatica ma non aveva alcun allenamento specifico, almeno così si dice. Sarà vero tutto questo o il maschilismo ad oltranza di allora già faceva capo anche nelle prime cronache alpinistiche? Vien facile pensarlo.

Anche la seconda donna che raggiunse questa vetta nel 1838: Henriett d’Angeville non ebbe vita facile, ingaggia alcune guide che all’inizio però non si presentano. Prima della partenza fa  testamento con la disapprovazione più totale del notaio, alla fine arriva  l’accordo: sei guide, sei portatori, Henriett, un conducente ed una mula, la piccola comitiva si avvia con una quantità incredibile di vestiario e cibo e prende commiato fra le ali di una folla alquanto sbigottita.  L’impresa riesce in tre giorni, con alcune difficoltà legate alle basse temperature. L’Angeville torna e vende molto  bene la sua vittoria, tuttavia il suo libro viene pubblicato solo nel 1986: incomprensibilmente ben 148 anni dopo l’impresa.

Nel 1871 Lucy Walker osa l’impossibile che non fu raggiungere la vetta del Cervino per la cresta dell’ Horli, ma quella di togliersi la lunga ed ingombrante gonna per procedere più speditamente con la sola e lunga sottoveste: gesto insolito ed arditissimo per quei tempi.

Ma cosa si pensava allora delle  donne? Sembra superfluo e sin troppo facile nonché banale ribadirlo: erano considerate semplicemente esseri inferiori, senza molti ma o perché. Non vi era alternativa, una donna per bene doveva sposarsi, avere figli ed accudire alle sole faccende domestiche, nulla di più: irreale e tragicamente vero. Anche le  guide si vergognavano di legarsi con le alpiniste e se lo facevano non  riportavano tale attività sui loro libretti, ne sarebbero  stati sminuiti. Nel 1924, il Comitato inglese per l’Everest dichiara “rifiuteremo sempre la richiesta di prendere parte ad una spedizione su questa montagna  a qualsiasi signora, le difficoltà sarebbero troppo grandi” La prima donna in vetta ad  un ottomila, l’Annapurna, fu Junko Tabei, ma dovette a sua volta superare molte difficoltà, ebbene la tradizione giapponese non contemplava che una donna lasciasse solo un uomo. “Non sta bene” aveva tuonato il marito, “ ti lascio via libera solo se facciamo un bambino” Junko accetta e quattro anni dopo, nell’Anno internazionale per la parità dei diritti tra uomini e donne, il 1975, a ventidue anni di distanza dalla prima ascesa compiuta da  Hillari e Tenzing, la nipponica sale dal Nepal diventando la donna “più alta del mondo”e precede  di soli 11 giorni la tibetana Phantong, giunta sulla cima dal versante nord con una spedizione cinese.

Un’indomita – Gertrude Margaret Bell (1868-1926): agente segreto britannico, sopravvive per ben 53 ore in una bufera che la blocca assieme alle sue due guide sul Finsteraarhorn. Il 24 maggio 1914 riceve a Londra la prestigiosa medaglia d’oro della Royal Geographical Society. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, trovandosi in Gran Bretagna, chiede di poter collaborare con il Governo e di partire nuovamente per l’Oriente: al rifiuto da parte del Ministero della Guerra decide di trasferirsi in Francia per collaborare con la Croce Rossa.

Nel novembre 1915, ancora scioccata dalla perdita del suo amato Richard, viene chiamata da David Hogarth al Cairo, dove è reclutata come agente segreto del Governo Britannico. In Egitto l’attende T.E. Lawrence  (proprio quello del famoso film) da lei già conosciuto nel 1911 durante una campagna archeologica in Mesopotamia. Gertrude si dedica completamente al nuovo incarico di spia e diplomatica, lavorando al miglioramento delle relazioni tra Egitto e India. In seguito è inviata a Bassora in qualità di Funzionario Politico delle forze armate britanniche, dove redige rapporti sulla regione mesopotamica. Dai beduini è soprannominata la Regina del deserto e madre dei fedeli. Parla correttamente l’arabo, il francese, il tedesco, l’italiano, il persiano e come se non bastasse anche il turco. Contrastata nel fisico dal troppo fumo e dalla durissima lotta contro  deserto ed uomini, pone fine  ai suoi oltremodo estenuanti giorni, probabilmente con una dose eccessiva di barbiturici: delle sue straordinarie vicende , nel 2015, se ne trarrà un film interpretato niente meno che da Nicole Kidman.

Meta Claudia Brevoot (1825-1876) nel 1870 realizza, se escludiamo quella effettuata sessantadue anni prima dalla Paradais, la seconda ascensione al Monte Bianco, lungo lo sperone della Brenva con uscita diretta sui seracchi mentre nel 1871, il 22 gennaio,  compie la prima invernale della Iungfrau. Nelle foto d’epoca le guide alpine si mostrano in  giacca, panciotto, pantaloni di lana e piccozza chilometrica, una divisa che potrebbe  contraddistinguerli, attrezzi a parte, se non fosse l’abito abitualmente utilizzato da tutti o quasi, durante la settimana: abbigliamento che rimarrà immutato anche quando, incredibile ma vero, si cercherà di affrontare l’Everest. Claudia, nelle stesse immagini, indossa  invece un  aggraziato cappellino con leggiadra fascia, busto rigido, una serie di gonne e sostiene un alpenstok. Durante le ascensioni Meta è quasi sempre accompagnata dal suo disinvolto cane che salì  trenta vette ed effettuò ben trentasei  traversate compresa quella del  monte Bianco. Probabilmente, il fedele compagno, proprio per queste sue “capacità alpinistiche”, poté essere iscritto al Club Alpino di Londra: evidentemente, con tutta l’ironia del caso, potremmo pensare che si trattasse di un cane maschio, al contrario non poté farlo la padrona: l’ente, allora, era tenacemente riservato ai benpensanti uomini.

Una svolta all’inverosimile abbigliamento femminile la darà invece Jeanne Immink, olandese, che nel 1893 scala con cappellino alla cavallerizza, giacchetta attillata e, scandalo scandalo un paio di pantaloni. Sostenitrice dell’alpinismo femminile, forte e determinata, dotata di un fisico da top model, arrampica con guanti di capretto per non rovinarsi le mani ed una larga cintura in cuoio al fine di sopportare meglio la legatura in vita della corda di sicurezza.

Una seconda indomita – Marie Félicie Elizabet Maringt  (1875-1963) si mise in competizione con tutto e con tutti. Intraprese innumerevoli discipline sportive: nuoto, equitazione, ginnastica, tiro a segno e scherma, alpinismo, box, nuoto, ma fu soprattutto un’aviatrice. Incredibilmente, travestita da uomo, partecipò armi in pugno, a diverse azioni militari in trincea. Scoperta venne rimandata a casa ma chiese tuttavia di operare nel 3° reggimento nelle Dolomiti italiane e di lavorare come infermiera. Nella sua incredibile carriera dovette anch’essa dovette lottare  contro l’imperante e generale maschilismo? Sicuramente sì ed in modo assai curioso. Nel 1908 tenta di partecipare al Tour de France ma ottiene un rifiuto dagli organizzatori: la corsa non era cosa per donne. Decise di partire sempre per ultima ad ogni tappa  e alla fine,  dei 114 atleti iscritti, al traguardo ne giunsero solo trentasei compresa appunto Marie.

Ma cosa si pensava effettivamente delle donne  alpiniste a cavallo del 900? Ce lo sintetizza brevemente nel suo articolo Cristina Marrone. …” la storia dell’alpinismo è una storia di uomini. Sono pochissime le donne protagoniste capaci di primeggiare in un mondo  maschilista dove ardore, coraggio e forza fisica erano associate alla sola figura maschile. Avvicinarsi alle alte quote per una donna era considerata cosa impossibile. Naturalmente per ovvi motivi fisici e mentali (naturalmente)”. Alcuni medici nel XVIII addirittura sostenevano che lo sforzo le avrebbe portate alla sterilità. Eppure negli anni gli schemi si rompono anche se stereotipi e pregiudizi saranno duri a cadere.”

Nel frattempo anche le donne si fanno largo sul sesto grado, dapprima accompagnate dalle guide poi in cordate a comando alterno sino ad osare, nuovamente scandalo scandalo, l’approccio con cordate completamente al femminile. Ellenne e la sorella Nelly Kirchen, russe, compiono la terza femminile sulla cima Undici. Angeal, Domenica ed Anna Grassi, educate spartanamente dal padre avvocato, scalano il Canin, il Perarlba e l’inaccessibile Perbio. Rita Gottardi e la coppia Gemma Pagani e Paola Facchini salgono il  Basso con Marino Pederiva, Annibale e Giovanni de Tassis.

Uomini contro – Maria Gennaro Varale (1895-1963)  a cavallo degli anni trenta del secolo scorso scala circa 217 cime, sia da seconda, ma anche da prima ed addirittura e spavaldamente in solitaria. Per audacia e capacità atletiche impressiona colleghi maschi come Piaz, Cassin e Comici: il meglio di allora. Di carattere indomito e limpido nel 35 si dimette dal CAI per la scelta del sodalizio di non voler concedere la medaglia al valor atletico ad Alvise Andrich, reo di essere stato suo compagno di cordata, nonostante l’alto valore della scalata sul Cimon della Pala. Nella lettera che invierà al CAI di Belluno si legge: “in questa compagine di ipocriti e di buffoni io non posso più stare, mi dispiace forse perdere la compagnia dei cari amici di Belluno, ma non farò più niente in montagna che possa rendere onore al Club Alpino dal quale mi allontano disgustata”.

Sempre in quegli anni, anzi un poco prima i giornalisti scrivono di Ninì Pietrasanta compagna di Boccalatte sia nella vita che sulle montagne “Una gentile fanciulla che difende la propria passione nei confronti di un’opposta tendenza che vorrebbe vedere la donna vera solo l’aspetto di un fiorellino ovattato, privo di energie e di colore e senza un carattere ed una propria personalità”.

In quel tempo si sbilancia solo Piaz che dice di Maria Graffer Dordi “la signorina Rita Graffer ha fatto semplicemente quello che ancora oggi pochi fanoi e che fino ad ora nessuna altra donna ha fatto” Piaz sta parlando della salita che la Graffer effettua con suo fratello, accademico sullo spigolo nord est  del Campanile, la via è elegante come quella di Preuss ma più difficile.

Ancora polemiche: dure critiche furono spese  per  la salita al Cervino nel 32 affrontato da  una cordata di sole alpiniste: Miriem o Brian e Alice da Mesme; altre contornarono i tentativi di Louise Boulaz sulla  nord dell’Aiger, nel 1937 e nel 1962: le donne non debbono andare in montagna specialmente su pareti simili. Nel 64 probabilmente si raggiunge il culmine dell’incoerenza maschile, forse un canto del cigno dell’indomito e perdurante maschilismo dimostrato sino ad allora. Il Club Alpino Accademico Italiano è nel panico.  Lo Statuto “ non impedisce alle donne di essere ammesse nell’Associazione, per quanto sino ad ora non vi si siano state candidature e difficilmente ve ne saranno” Ma ora vengono proposte quelle di Silvia Metzeltin e di Bianca di Beaco. Questo non impedisce di certo alla Metzeltin, accanita sostenitrice dell’alpinismo femminile di organizzare nel 1983 una spedizione di sole donne la Monte Meru, composta da tre cime di 6500 mm circa, in Garwal (India), dell’impresa  fanno  parte le alpiniste: Annelise Rochat, Laura Ferrero ed Alessandra Gaffuri; Annalise Cogo ed Oriana Pecchi come medici e Nadia Billia con Mariola Masciadri come logistica. La vetta non verrà raggiunta per il perdurare del cattivo tempo

Un caro prezzo – Desiderio di primeggiare in assoluto, voglia di cimentarsi contro l’imprevedibile estremo, smania di dimostrare al “sesso forte” che non si è da meno, ricerca della gloria a qualsiasi costo?  Non lo sapremo mai: è impossibile immedesimarsi nel pensiero di chi più volte ha superato ogni limite, purtroppo molte alpiniste hanno pagato il prezzo più duro per assecondare questa enigmatica commistione fra pensiero, convinzioni  e passione.

Nel 1986 chiudono definitivamente i propri sogni: Julie Tullis sul K2, Wanda Rutkiewicz sul Kangchenzonga, Liliane Barrard e Dobrostava Miodowicz- Wolf, nuovamente sul K2. Vite spezzate anche per Yasuko Namba nel 1986 sull’ Everest come nel 1993 accadde a Pasang Sherpa Lhamu. Go Mi- Sung rimane sul Nanga Parbat dopo aver salito ben 11 di quelle vette. Alison Hargreaves ci lascia nel 1995 sul K2, Chantal Maudit nel 1998 sul Dhaulagiri e Christine Boskoff nel 2006 travolta da una frana sul Genyen Peak in Cina.  Erano meno forti o non preparate a sufficienza? Non direi proprio, la Halison, britannica, ad esempio per allenamento si è scalata tutte e sei le grandi pareti nord delle Alpi in una sola stagione compreso l’Aiger con un bambino nella pancia da sei mesi, cosa che suscitò non poche polemiche: bambino che al momento alpinisticamente sta superando il DNA lasciatogli dalla madre.

Questi sono fatti drammatici, messi in conto, con un unico e travolgente pensiero dentro: ce la farò qualsiasi cosa accada. Ma la montagna comanda, comanda sempre ed ha le sue leggi, spesso spietate. Le situazioni or ora esposte però vanno un attimo contestualizzate senza nulla togliere al fatto che fortissime scalatrici non ci sono più. Gli ottomila hanno tradito anche fortissimo come Renato Casarotto,  che nel 1979 ritornando da un tentativo in solitaria sul K 2 si infila in un crepaccio. A tal proposito va ricordato che Goretta Traverso, sua moglie è stata la prima donna italiana, nel 1985 a raggiungere un ottomila: il Gascerbrum II. Sull’Everest, al momento sono salite più di ottomila persone che potremmo definire non alpiniste e sulle sue pendici i corpi ghiacciati sono più di duecento: le statistiche sono disumane e terribili quanto a volte le montagne stesse, ma questi sono numeri ed in proporzione, tralasciando il disperato gesto umano volto alla sopravvivenza, gli incidenti letali da queste parti sono ancora pochi, fortunatamente, ma qualche domanda bisogna comunque porsela.

E allora? L’alpinismo prosegue nella sua strada di ricerca tecnica e personale sia in campo maschile che femminile. Vi sono differenze prestazionali fra i due sessi? Potremmo dire di si in alcuni campi, ma proprio nell’alpinismo, sintesi delle azione estreme, il divario si assottiglia sempre più. In alcuni casi le disparità si sono capovolte: quanti sono i maschi che hanno scalato le sei nord in una sola stagione? Il climber olandese Jorg Verhoeven sale in libera il The Nose su El Capitan, peccato che Lyn Hill lo abbia preceduto di vent’anni. Chaterine Destivelle nel 90, divora  in quattro ore la Bonatti al Petit Dru, anticipando di qualche decennio i velocisti maschi. Nel 2016 l’attraente nonché atletica Mingolla che di nome fa Federica, vola  da prima di cordata ed in libera sul famoso “Pesce” in Marmolada (X+) e Nina Caprez danza leggera ormai attorno al grado XI.

Da ultimo come non ricordare la nostra Nives che è stata si preceduta nella corsa ai 14 ottomila da Gelinde Katenbrunner e da Edurne Pasaban e quasi anche da Oh-Eun –Sun, alla quale hanno messo in dubbio la salita al Kangchenjunga; ma la Meroi è l’unica che li ha raggiunti tutti senza ossigeno, con il compagno di sempre, in perfetta coerenza e con la determinata costanza che contraddistingue fortunatamente molte delle nostre compagne.

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