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Alpinismo

Il CAI nella storia, la storia del CAI

Un sito internet sulla guerra di trincea in montagna inspiegabilmente cancellato

La storia del CAI

L’alpinismo e la trasformazione dell’individuo attraverso l’arrampicata

Le Terre Alte

Navigando su internet, come suol dirsi, tempo fa trovai fa un sito piuttosto ben strutturato, realizzato unendo una moltitudine di voci e competenze. Contattai il responsabile dichiarando il mio entusiasmo e la conseguente ammirazione. I temi trattati: le fortificazioni della Grande Guerra in Lombardia erano di mio interesse ed a mia volta mi sarebbe piaciuto offrire un personale contributo. Alcuni mesi dopo, perplesso, dovetti ritelefonare ancora a quella persona.

Per questioni delle quali non sapeva fornir ragioni, forse nel frattempo erano sorte rivalità o incomprensione fra i vari autori, quell’importante e significativa fonte di informazioni e di scambio non esisteva più.

Quello fu un esempio, fra i tanti che quotidianamente accadono, di come una iniziativa nasca attraverso la passione di alcuni uomini, e di come, successivamente, per volontà di altri uomini, decisamente con obbiettivi più corti, venga cancellata togliendo voce e visibilità a cose che rimarranno di conseguenza per sempre nell’ombra limitando la consapevolezza e la curiosità di molti. 

Premesse 

Forse per scarso approfondimento dell’argomento, spesso si dice che le montagne non hanno mai interessato nessuno sino ad epoche relativamente recenti: niente di più sbagliato. Moltissimi valichi ed altrettante vette presentano frequentazioni preistoriche legate a situazioni sia di culto che di commercio o addirittura belliche:non dimentichiamo che Annibale è sceso in Italia accompagnato da guide celtiche e che comunque molte materie prime hanno attraversato le Alpi, ma anche i mari e le foreste, molti millenni prima che si parlasse di alpinismo: l’uomo del Similaun insegna.

Ho smesso di arrampicare ormai da anni, lavoro e famiglia sono argomenti sufficientemente seri che distolgono da quel grado di concentrazione ed anche di allenamento necessari per continuare in sicurezza, tuttavia costantemente mi interrogo sul perché di questa attività. Nel 1975, sull’annuario del CAI di Bergamo esordivo per la prima volta non con uno ma con ben due articoli. Il primo riguardava una spiegazione personale del perché una persona sceglie l’alpinismo ed il secondo anticipava quello che sarebbe stato il mio operato almeno sino ad ora, si era nel 2011, cioè quella dell’accompagnare gruppi di persone, spiegando le molteplici realtà intrinseche dei luoghi visitati, pianura compresa anch’essa intesa come contenitore di cultura, natura, lavoro e tradizioni. I libri di montagna sono ovviamente moltissimi, ogni alpinista descrive la propria storia e le proprie vette ma in realtà una risposta a questo interrogativo non viene mai data: forse il fatto che continuamente si superano limiti, costituisce già di per sé una risposta, giacché per alcuni uomini non esiste l’ovvio, la scarsa azione, a volte un sano oziare dopo ore di lavoro o  l’accontentarsi delle consuete cose. 

Ho conosciuto di recente un contadino: era sereno, appagato dal suo lavoro, immutato da secoli, non si era mai mosso dalla frazione alpina dove abitava, ma non vi era rammarico o commiserazione nel suo sguardo: gli occhi erano azzurri ed esprimevano una pacata ed invidiabile saggezza: la sua vita, i suoi perché erano il lavoro e la propria famiglia.

Per altri uomini non è così, il desiderio positivo del conoscere, del procedere, dello scoprire, il sapore, sì proprio il “sapore” della sfida, sale loro nella gola e non si quietano, anche solo per poco, se non raggiungono ciò che desiderano, sia nel bene che nel male. Comunque innanzi tutto un alpinista è un uomo e quindi è soggetto a tutte le proprie contraddizioni, a tutte le proprie ambizioni e a tutte le proprie debolezze. Ma un alpinista è soprattutto un umano che decide di rischiare il bene maggiore che possiede: la propria vita. L’alpinismo è quindi un gioco di equilibrio non solo fisico ma anche e soprattutto mentale. 

Una persona assume deliberatamente un rischio utilizzando allenamento e concentrazione per evitare gli evidenti rischi legati a questa attività: ecco perché trovo abbastanza incomprensibile protrarre per tutta la vita questa esperienza. A mio avviso scalare tutti i quattordici gli ottomila, tanto per fare un esempio, non ha senso, ne basta uno per mettersi alla prova e capire quali sono i propri limiti, perché questo è il punto: raggiungersi attraverso una prova, il resto o è un lavoro o è un prolungato narcisismo; poi ovviamente vi sono anche questioni economiche.

Il problema è che si incomincia solitamente da giovani quando la carica sia fisica che ideale è potentissima, sembra, per l’appassionato, che la vita non abbia senso, se non salendo cime sempre più difficili, affrontando prove sempre più dure e temerarie, senza neppure rendersi conto che si tratta di un gioco pericoloso che richiede a volte contributi irreversibili.

A mio avviso si tratta di un percorso che una persona, in qualche modo orienta per sua natura verso questo tipo di esercizio, intraprende per un certo numero di anni, sino a quando molteplici cause lo orientano verso scelte diverse e forse, a volte, più pacate: la mia passione attuale è la fotografia e qualche rischio lo corro anche adesso soprattutto perché in montagna frequento itinerari non tradizionali e magari abbandonati da anni.

Rimane il fatto che queste esperienze segnano fortemente l’interessato che a sua volta le trasferisce attraverso il proprio modo di agire, in altre situazioni della vita. Rimangono quindi il gusto primordiale del rischio e dell’avventura intesa come ricerca e sfida, rimane la determinazione, rimane la freddezza dentro un animo che invece ribolle continuamente di passione. Rimane anche una ribellione positiva alla consuetudine, alla vita comoda, alle situazioni statiche, altrimenti non si spiegherebbe tutto il volontariato tipico della nostra associazione; rimangono soprattutto gli ideali e questo è il messaggio principale. 

Ogni scalatore infatti ha nella propria mente una linea diritta che sale dal ghiaione sino alla vetta. Questa linea diritta, verticale, questa emozione grande ed irresistibile è presente in ogni alpinista. Purtroppo esistono persone e quindi anche rocciatori che celano dietro un sorriso la mancanza di cuore e puntano solo al successo limitando o denigrando le iniziative altrui, frenando di conseguenza le altrui emozioni e le altrui speranze. 

L’ alpinista sincero, dunque, non scordiamocelo mai, è colui che sale diritto lungo ogni azione della propria vita.

Ricordo inoltre che la storia dell’alpinismo può essere descritta in vari modi: LE GRANDI PARETI, di Doug Scott, ne è un esempio, ma l’alpinismo è soprattutto un’attività umana che si evolve, che sconfigge paure, che supera barriere geografiche, fisiche e mentali. E’un’attività che utilizza sempre nuovi materiali e tecniche: in poche parole l’alpinismo si evolve mentre si evolve l’uomo stesso in un contesto molto più ampio di quello sportivo. 

Siamo arrivati agli ottomila in inverno, con pochissimi compagni e scarsissimi materiali. Il gusto dell’avventura, del rischio, della prova estrema rinasce nuovamente, la fantasia riprende il suo cammino in un mondo che massifica, soggioga e ridimensiona tutto; in un mondo che offre continuamente effimere sicurezze.

Possiamo e dobbiamo riprendere in mano la nostra vita affidandoci alla natura ed alle sue regole e l’alpinismo come altre attività ce lo insegna, sicuramente accompagnati da una tecnologia sempre più sofisticata ma che deve essere guidata dal buon senso e non dalla sopraffazione economica e mentale. Non è necessario scalare un ottomila d’inverno ma sicuramente è necessario rivolgerci in modo decisamente meno aggressivo nei confronti del nostro pianeta. Probabilmente in futuro saremo chiamati a qualche rinuncia, a qualche ristrettezza, ma forse riscopriremo le nostre salutari e più genuine emozioni.

Intervento di Lino Galliani nella conferenza “Fortificazioni Bergamasche”

Bergamo Alta – Ex convento di San Francesco – Museo delle Storie di Bergamo

In questa conferenza, considerato che i temi trattati erano simili, ho accennato ai fatti legati a quel sito internet dove, per un certo periodo, vennero raccolte testimonianze legate alla guerra alpina, con notizie e contributi di vario genere ad opera sia di appassionati che di veri e propri esperti, nonché di altre associazioni o gruppi. 

Tale sito purtroppo, nonostante le significative premesse, ebbe poi breve vita  e per insondabili cause fu oscurato.

Ecco quanto avevo preparato per la conferenza: Fortificazioni Bergamasche, testo che poi ampliai per essere inserito successivamente appunto in quel Sito inverosimilmente cancellato.

IL CLUB ALPINO ITALIANO

Parlare del Club Alpino e dell’ impegno profuso, anche ma non solo, nell’ approcciarsi da parte della nostra Sezione, ai temi storici del  bergamasco, nel caso specifico, gli eventi della Prima Guerra Mondiale, significa anche percorrere la storia stessa del Club e la sua evoluzione: trasformazione comunque simile e dunque paragonabile anche a quella della singola  persona che, amante della montagna e dei suoi temi, la affronta e la conosce, inizialmente con impeto giovanile e via via  tramuta questo suo legame in una crescita che lo porta a voler conoscere non solo gli aspetti sportivi ma quanto effettivamente vi è di storia e di umano nell’ ambiente alpino. Nella sua maturità il Club Alpino si è aperto ad una miriade di argomenti ed ora è in gran parte votato alla salvaguardia ed al desiderio di divulgare il più possibile gli aspetti etnografici, storici ed ambientali, trasformando queste conoscenze in cultura da trasmettere specialmente ai giovani che sopratutto di questi tempi hanno bisogno di esempi ed orizzonti da raggiungere quanto mai sereni e retti.  

La guerra è una tragedia, ma la guerra è fatta di uomini e la guerra alpina con i suoi uomini si avvicina sicuramente almeno come luoghi e pensieri interiori a quanto, forse, molti alpinisti hanno vissuto in situazioni certamente differenti, ma a volte egualmente tragiche. La guerra inverosimilmente rappresenta la ricerca della pace, in guerra altrettanto inverosimilmente si cercano gli ideali, almeno in quella guerra: così è per l’alpinista. La pace, quella interiore, e gli ideali di vita vengono ricercati attraverso imprese rischiose: anche se certamente non è necessario raggiungere la vetta di una montagna per percorre un tragitto di crescita, ma ognuno è libero di raggiungere i propri obbiettivi interiori come meglio crede e l’alpinista opera questa ricerca salendo montagne per la via più diretta possibile, che idealmente si identifica con quanto sente il proprio spirito. 

Parlare del Club Alpino e delle persone che lo hanno sostenuto mi sembra un atto dovuto anche per capire la attuale grande apertura e le tematiche che, tramite le “commissioni” cioè i vari organi tecnici, ciascuna attraverso il proprio specifico lavoro, vengono proposte al pubblico. 

Questa apertura e questo tramutare la propria esperienza in azioni socialmente utili sono spesso riassunte nelle pagine di molto autori alpinisti. Hillary, il primo uomo che raggiunse con lo sherpa Tenzin la vetta dell’ Everest, nel 53, scrisse il libro: Arrischiare per Vincere; ma arrischiare e vincere solo per se stessi ? sicuramente no, visto che Hillary costruì aeroporti, scuole ed ospedali in Tibet. Altro titolo sicuramente significativo fu: I conquistatori dell’inutile, di Lionel Terray: Lionel ed Herzog, nel 1950, raggiunsero per la prima volta un ottomila. Si trattò di un atto accanitamente e testardamente inutile o di parte dell’esperienza umana legata ad un ristretto manipolo di uomini: consideriamo che Herzog stesso venne successivamente chiamato dal generale De Gaulle a ricoprire la carica di Ministro per la gioventù e per lo Sport diventando addirittura  nel 1968 sindaco di Chamonix.

 In molti casi l’azione alpinistica si trasforma in azione sociale, seguiamone gli sviluppi.

La  Montagna fra Scienza, Filosofia ed Illuminismo

Non si può dissociare l’azione alpinistica e di conseguenza l’uomo che la compie dal tempo nel quale l’uomo stesso vive e compie tali imprese. Sull’ Enciclopedia della montagna, dell’Istituto Geografico De Agostini, compaiono al proposito bellissime, significative e sopratutto sentite parole, talmente belle che sarebbe impossibile ed oltraggioso modificale, per cui le trasmetto così come sono, o con qualche piccola aggiunta con la sola speranza di raggiungere il pubblico con la stessa intensità e forza di pensiero con la quale sono state pensate, scritte e proposte.

“…L’otto agosto del 1786, per la prima volta due uomini raggiungono la vetta del Monte Bianco, essi erano: un cittadino, il dottor Michel Gabriel Paccard ed un valligiano Jacques Balmat. Siamo in pieno Illuminismo, cioè nel periodo caratterizzato dal trionfo della ragione… Prima di allora la montagna ha destato sempre timore e terrore e chi osava affrontarla era ritenuto un pazzo…”

In realtà, come abbiamo detto in apertura, valichi ed i territori alpini, sono sempre stati frequentati sin dalla preistoria sia per questioni legate al commercio dei metalli che alla sopravvivenza stessa dei primi uomini colonizzatori che sapevano adattarsi  a situazioni estreme di ogni genere.

“…Solo il pensiero illuminista, con il suo franco positivismo, poteva permettersi di sorridere di tutto ciò (cioè del terrore causato dall’ignoto mondo alpino) ed esso soltanto poteva pensare di scalare le vette con interesse esplorativo e scientifico, con vivo desiderio di dominare la natura e sottometterla ai fini dell’uomo. Forse, allora, solo alcuni montanari, per lo più cacciatori o cercatori di cristalli, potevano sorridere delle leggende e delle favole: nel corso delle loro avventurose escursioni si erano spinti ai limiti dei ghiacciai, …. Tuttavia a questi uomini non importava raggiungere la vetta perché probabilmente non ne scorgevano alcuna utilità pratica….”

“…Ventisei anni prima della salita al Monte Bianco, nel 1760, Horace Benedict de Saussure, professore di filosofia e scienze naturali a Ginevra, mette in palio un premio fra i valligiani di Chamonix per raggiungere la vetta del Bianco (la raggiungerà nel 1797). Perché voleva questo, unicamente per scopi scientifici? Forse ribolliva in lui una magnifica ribellione ad un periodo oscurantista e tenebroso? Probabilmente dovremmo accuratamente scandagliare non soltanto la personalità di De Saussure ma anche il periodo storico e l’ambiente sociale nel quale visse. E’ da sottolineare che Paccard, al contrario non era affatto pungolato da interessi scientifici – ma sarebbe riduttivo pensare unicamente alla sola prestazione atletica, per giustificare questa azione ed in generale il complesso fenomeno dell’alpinismo… Comunque un famoso scalatore inglese Irvine, scrisse in proposito: ” E’ appena possibile credere che due uomini, anche se coraggiosi ed intrepidi come quelli, abbiano potuto risalire senza corda né piccozza. Ma la “sferzata illuministica” si esaurisce ben presto per essere comunque sostituita dal pensiero romantico”.

Alpinismo e Romanticismo

“…Proprio l’alpinismo pare adeguarsi alla perfezione al nuovo credo: eroismo, passione per la natura solitaria e selvaggia, superamento di se stessi, morte gloriosa (in battaglia).Fortunatamente ai nostri giorni l’alpinismo è considerato e vissuto molto più serenamente. Accanto alle guide valligiane, che sembrano non comprendere questo modo di concepire l’alpinismo, si affaccia una folla di cittadini: intellettuali, studenti, operai, tutti si avvicinano alla montagna per portare e ricevere qualcosa di diverso, ma molti si identificano, consciamente o no, nel modello romantico. Per qualche tempo la componente squisitamente sportiva ne risulta offuscata, ma in seguito emergono grandi figure di alpinisti, che oggi possono apparire un po’ melanconici ed infelici. Uomini che, forse, incapaci di realizzarsi in un modello sociale precostituito, trovano la molla e la spinta morale per realizzare imprese di eccezionale valore…”

Dalla sintesi di questi due mondi, scaturisce la conquista del Cervino, 1865, lungamente assediato da Whymper, che ne salirà il versante svizzero e da Carrel per il versante italiano; nonché la nascita dei vari Club Alpini, primo fra tutti quello inglese, nel 1857, quello italiano nel 1863 e anche quello di Bergamo nel 1873: periodo nel quale, penso sia bene ricordarlo,  era appena avvenuta l’unità d’Italia (1861).

“…In questo periodo ormai la lotta è rivolta alla “conquista” di pareti e versanti sempre più difficili; ma un’impresa sola, come il canto del cigno, serve per caratterizzare tutta un’epoca che si esaurisce per fare posto ad un’altra che sta per nascere: la salita da parte di Gervasutti del pilastro di destra del Freney. (1940)…”

“…Gervasutti appartiene al filone romantico dell’alpinismo, lo stesso che ha dato nomi e figure quali quelle di Comici o Cretier – fortissimo alpinista valdostano, che non godette di notorietà, nonostante le sue notevoli capacità sia in roccia che in ghiaccio –  Eppure Gervasutti , in un certo senso, supera il proprio romanticismo per proiettarsi nell’alpinismo sportivo che si affermerà a breve. Come Cassin, affianca l’alpinismo dolomitico a quello occidentale e come Cassin, riesce a fonderli armonicamente sulle grandi pareti del Bianco. Al contrario però Cassin è un uomo “risolutore”, che non si perde in meditazioni e melanconie… “- forse non ne aveva neppure il tempo, considerate le ristrettezze economiche di quei periodi -“…Anche Gervasutti ama l’azione. Ma ciò che lo spinge è un turbine interiore. Una disperata ed assillante ricerca di qualche cosa di irraggiungibile che egli tenta di fissare nell’ azione alpinistica. La sua vita fu punteggiata da grandi esaltazioni e profonde ricadute. 

Oggi forse la psicologia dell’individuo, con il suo impietoso realismo scientifico, ne sottolineerebbe l’esasperata sensibilità. Ma è proprio questo lacerante conflitto interiore che porta Gervasutti da amare e affrontare la montagna con spirito di cavaliere antico. L’ uomo è chiaramente combattuto: da una parte l’anelito all’eroismo, dall’altra la molla agonistica. Per Gervasutti il pilone destro del Freney, rappresenta la linea di salita più naturale dell’intera parete, gli garantisce la prospettiva di una ideale lotta corpo a corpo, dove il tecnicismo non è ancora intervenuto a spostare il piatto della bilancia nella sua lotta contro la natura. Gervasutti realizza la propria scalata e riesce forse a vivere tutto quanto ha sognato, anche un’uscita notturna alla pallida luce della luna, che riesce a rendere quell’ ambiente , gia freddo e minerale  ancora più irreale e crudo…”

“…Il filone romantico comunque vive il suo momento più fulgido, prima di terminare definitivamente con Walter Bonatti. Lo scalatore, anche se non per propria scelta, diviene un mito, le sue imprese sul Monte Bianco hanno dell’incredibile. Diviene il nuovo eroe nel quale molti vorrebbero identificarsi per riscattare realtà vissute fra frustrazioni quotidiane e rapporti umani logori ed esausti. Ma purtroppo alcune tragedie offuscano l’attività di questo grandissimo alpinista; l’alpinismo si tinge di morte e di dramma; diventa sfida, lotta e si allontana sempre più da quella serena gioia di vivere che si prova o si dovrebbe provare, andando in montagna. Nel 1961 Bonatti sferra l’attacco al pilone centrale del Freney, parallelo al Pilastro Gervasutti, con l’intento di aprire una via alla vetta del Monte Bianco. Questa volta entrano in gioco i chiodi, i cunei di legno, le staffe: il cavaliere antico ha indossato scudo e corazza, ma una tragedia terribile mutila le cordate italo francesi: quattro uomini muoiono di sfinimento…”

La ricerca del sempre più difficile

 “…Nel 1967 Desmason e Flematti realizzano un’impresa sconcertane, la prima ascensione invernale di quello stesso pilone centrale del Freney – quale molla spinge quegli uomini ? – Le difficoltà di avvicinamento, l’isolamento fisico e psicologico, l’estenuante lunghezza del percorso, la quasi totale assenza della possibilità di ritirata, imprimono a questa scalata un grandissimo significato….” Desmaison, si ripeterà poi sulle Jorasses, nel 1971 con Gosseault parte per una nuova via il 10 febbraio; il 19 arrivano a 100 metri dalla cima dove si fermano a causa di violentissime bufere: Goussolt, afflitto da una malattia che non aveva dichiarato alla partenza, muore il giorno 21 e solo il 25 febbraio un elicottero recupera Desmaison ormai giunto all’estremo dello sfinimento: ne scaturirà il tremendo libro Trecentoquarantadue ore sulle Grandes Jorasses… L’alpinismo è ormai giunto ad un’ impasse: la ricerca del sempre più difficile spinge l’alpinista a tentare imprese sempre più rischiose e talvolta persino assurde. La lotta, ormai si sta trasferendo al di là delle Alpi, sopratutto in Himalaiya, dove Reinhold Messner, riproporrà in chiave moderna tutte le tensioni e le aspettative dell’alpinismo europeo.

La parola ai protagonisti

Le azioni di tutti questi uomini nascono prima di tutto nello spirito, ed è nello spirito stesso che avviene la ricerca e la trasformazione, l’azione fisica e “solo” il mezzo, forse pensatori prima che sportivi, l’alpinismo costituisce per loro la via da  percorrere per ritornare a se stessi rinnovati e molte delle loro parole lo confermano, ed ancora una volta lasciamo la parola ai grandi, senza per questo voler sminuire e disconoscere l’ azione di moltissimi appassionati che comunque “sentono” la montagna allo stesso modo. 

Bonatti, nel libro – Montagne di una vita- si esprime in questo modo. “… La montagna mi ha insegnato a non barare, ad essere onesto con me stesso e con quello che facevo. Se praticata in un certo modo è una scuola indubbiamente dura, a volte anche crudele, però sincera come non accade sempre nel quotidiano. Se io dunque trasporto questi principi nel mondo degli uomini mi troverò immediatamente considerato fuori luogo… E’ davvero difficile conciliare queste diversità. Da qui l’importanza di fortificare l’animo, di scegliere cosa si vuol essere; ed una volta scelta una direzione, di essere talmente forti da non soccombere alla tentazione di imboccarne un’altra…

Anche Herzog, nel suo libro – Annapurna, il primo 8000, si esprime in maniera forte e significativa: “…Lachenal ed Herzog, sono sull’aereo del ritorno, specialmente Herzog è stato sottoposto a gravissime amputazioni alle dita di mani e piede in seguito ai congelamenti subiti pur di raggiungere la vetta… Cullato nella mia lettiga, penso a questa avventura che volge al termine, alla vittoria insperata. Si parla sempre dell’ideale come di una meta verso cui si tende senza mai raggiungerla. 

Per ognuno di noi l’ Annapurna è un ideale raggiunto: in gioventù non fummo traviati da racconti fantasiosi o da sanguinosi combattimenti che le guerre moderne offrono in pasto all’immaginazione infantile. La montagna è stata per noi una palestra naturale dove, giocando ai confini della vita e della morte, abbiamo trovato la libertà che oscuramente cercavamo e della quale avevamo bisogno come il pane. La montagna ci ha elargito le sue bellezze che ammiriamo come ingenui fanciulli e che rispettiamo come un monaco rispetta l’idea divina. L’Annapurna verso cui siamo andati tutti in “estrema povertà” é un tesoro sul quale vivremo. Con il compimento di questo sogno una pagina viene voltata… Ricomincia una vita nuova…Non vi è un’unica Annapurna nella vita degli uomini….

Anche Hillary tramite il suo libro – Arrischiare per vincere –  lascia una forte traccia nel lettore “… Gli eroi che ammiravo nella mia giovinezza sembravano possedere capacità e virtù al di là della portata degli uomini comuni. La mia brama di emularli era grandissima, ma non riuscii mai ad avvicinare il loro grande livello. Preso da paura nel fondo dell’animo nei momenti del pericolo, mi era difficile dar prova del calmo olimpico coraggio che contraddistingue l’eroe esemplare. Possedevo una certa vigoria fisica, … Pur essendo animato da buone intenzioni e avendo una gran voglia di rendermi utile, la mia abnegazione per cause nobili ed elevate si rivelava scarsa.

Scopersi che anche i più umili possono affrontare imprese avventurose ed anche i timorosipossono portarle a compimento.

In un certo senso la paura entrò in me come un’amica: la detestavo, ma imprimeva sapore alla sfida e soddisfazione al successo. Invidiavo coloro che nel successo si aggrappavano ad una dimensione di pace e di tranquillità; io invece ero sempre troppo inquieto e la vita era una lotta continua contro la noia. Ma i compensi sono stati grandi, ben oltre i meriti reali. Ebbi il mondo steso sotto i miei goffi scarponi e vidi il sole sorvolare rosso l’orizzonte dopo il buio inverno antartico. Mi è stato dato di più che la mia parte di emozione, di bellezza, di riso e di amicizia

Ai nostri giorni

Le regole erano state dettate da Paul Preuss nel 1900, in un periodo sempre più orientato verso l’uso dei chiodi e le relative tecniche, egli affermò sempre che queste costituivano un passo indietro nel cammino dell’alpinismo ed un’offesa all’ etica dello scalatore. Da allora molte regole sono state infrante, sempre comunque con l’intento di superare limiti e tabù. L’alpinismo ma sopratutto il Club ha espanso le proprie potenzialità, il proprio modo di pensare e di agire. Esistono ancora i cavalieri dell’impossibile ma la grande maggioranza degli iscritti attivi si rivolge sopratutto all’ ambito del sociale. Sono nate ad esempio le commissioni di Escursionismo e di Alpinismo Giovanile, con l’intento di trasformare la semplice gita in un momento conoscitivo. Anche la Commissione Tutela Ambiente Montano, a livello nazionale propone attività quali: “Guardarsi Attorno”, dove il rifugio assume importanza centrale dal quale poter considerare sia i temi ambientalistici ma anche quelli storico culturali legati ai singoli luoghi. Esiste, almeno in Bergamo, la Commissione Impegno Sociale, che di volta in volta interviene laddove si manifestino specifiche esigenze, che senza l’interessamento e la collaborazione di vari enti, non potrebbero attuarsi. Fra le nuove nate possiamo considerare anche il gruppo di lavoro “Terre Alte” che su scala nazionale si occupa del censimento e della catalogazione dei manufatti dell’uomo in territorio alpino. Proprio aderendo a questa iniziativa è nata la mostra “Terre Alte Bergamasche”, che attraverso alcuni “appunti fotografici” mostra quanto ancora sia ricco di testimonianze storiche il nostro territorio.

Che cosa sono “Le Terre Alte”

Le zone alpine ed appenniniche hanno svolto per secoli la funzione di aree di transito, collegando differenti ambienti culturali. Le civiltà dell’Europa centro-settentrionale in questi ambiti, sono venute a contatto con le sedi della cultura mediterranea attraverso quel complesso sistema di comunicazione “trans-alpe”, che ha caratterizzato un’epoca. D’altra parte le catene montuose con le loro accidentate morfologie hanno nel contempo favorito la conservazione di precise fisionomie: l’insieme di tutte queste circostanze ha fatto sì che si formasse un profondo “sedime” culturale la cui complessità non ha riscontro in altre zone europee. La cultura delle genti montane assume così localmente la funzione di sintesi delle più antiche civiltà europee, con la sua commistione di miti, usanze, credenze, ed idiomi, che sono altrove andati perduti.

Un contesto, quello montano, estremamente diversificato e di grande significato testimoniale. Accanto ad ataviche espressioni del più antico retroterra culturale italico (fors’anche di origine preistorica) convivono istanze di civiltà centro europee conservatesi in apparente isolamento, grazie alle quali è ancora oggi possibile riscoprire ed ascoltare messaggi altrove silenziosi o peggio ancora cancellati dall’evolversi dei tempi moderni.

Questo plurisecolare “sedime” trova piena espressione nei segni che l’uomo ha lasciato sulterritorio. Alcuni costituiscono autentici testi di cultura non scritta, specchio di un particolare momento della nostra civiltà. Sotto questo punto di vista non è esagerato definire taluni insediamenti alpini come condensati di messaggi, di linguaggi e di conoscenze direttamente trasmesse dalle forme e dall’ornato del costruito: simboli e pietre scolpite “bene auguranti” (apotropaiche) e segni della civiltà cristiana innestati sui residui del più antico paganesimo (vedi gli ultimi ritrovamento brembani); usi, costumi, abitudini, credenze, superstizioni ed insospettate soluzioni tecnologiche costruttive che non hanno finito di insegnare anche alla nostra “civiltà di cemento”.

Questo patrimonio di civiltà è tuttavia in pericolo: l’esodo dalle campagne ha determinato l’abbandono di numerosi beni culturali ed insediamenti storici che rimangono così esposti alla inclemenza del tempo, condannati ad una rapida scomparsa. Stiamo assistendo alla progressiva distruzione di gran parte di questi beni e tra non molti anni le prossime generazioni ne potrebbero essere del tutto private. Quante vallate alpine ed appenniniche sono attualmente punteggiate da borghi, alpeggi, casolari ed altri manufatti abbandonati ed in parte già crollati?

Quanti segni dell’opera dell’uomo nelle “Terre Alte” (terrazzamenti, sentieri, canali di irrigazione, ponti, fontane, edicole votive, dipinti su roccia ecc.) sono sul punto di essere cancellati? Tutti noi non possiamo accettare questa silenziosa distruzione delle radici culturali delle genti alpine ed appenniniche. Da queste considerazioni scaturisce un impegnomorale per tutti coloro che amano la montagna. Occorre fare qualcosa affinché a memoria di questo grande patrimonio possa essere tramandato alle future generazioni. E’ certamente impensabile, se non in casi episodici, poter procedere al recupero della cultura materiale delle genti di montagna. E’ invece possibile avviare un’iniziativa ad ampio raggio (ed ormai da dieci anni il Gruppo CAI delle Terre Alte, lavora a questo progetto) per censire, catalogare, documentare, segnalare i beni culturali alpini ed appenninici in procinto di andare perduti, con lo scopo di realizzare il Catalogo Nazionale dell’Insediamento Storico Alpino ed Appenninico.

I RISVOLTI CULTURALI – La “ricognizione” sui segni dell’uomo nelle “Terre Alte” coinvolge la totalità dei molteplici aspetti, che costituiscono la “dimensione culturale” ed ambientale della montagna. Censire le testimonianze dell’insediamento storico significa infatti poter cogliere le particolarità geologiche, morfologiche, vegetazionali, storiche e paesaggistiche proprie di una determinata area montana.

Forse in nessun altro ambiente geografico italiano, è possibile rendersi conto dello strettissimo legame che unisce l’insediamento umano alle caratteristiche ambientali delle aree montane più elevate. Tutto ciò si manifesta in un equilibrio tra opera dell’uomo ed opera della natura che rappresenta forse il “messaggio” più importante che scaturisce dalle “Terre Alte”. 

Da queste considerazioni deriva anche il carattere “educativo” insito in tali attività. Per quanto riguarda il Club Alpino Italiano e le commissioni che in esso svolgono moltissimo lavoro: Alpinismo Giovanile, Tutela Ambiente Montano, Escursionismo, Comitato Scientifico, ecc. Sarebbe possibile finalmente coniugare l’insegnamento teorico, con una effettiva opera di conoscenza, tutela e catalogazione in grado di trasformare tutti gli appassionati inseriti in queste categorie in autentici protagonisti di una prestigiosa avventura. 

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