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Etnografia

La mucca Gentile

Studio ormai da  tempo il territorio bergamasco prendendo in considerazione sistematicamente ogni zona e per quanto mi è possibile, ogni  singolo aspetto: un po’ pretenzioso e dispersivo forse… ma questo non posso ancora dirlo.  Ho iniziato dalla pianura ed ora mi appresto a chiudere il cerchio con l’enigmatica, vasta e complessa Valle Brembana: finalmente … mi vien da dire. Ho fotografato e fotografato e fotografato e cercato. Il mio desiderio era quello di scovare almeno un oggetto che ricordasse il passato, una scheggia di selce, una punta di freccia ma i tempi in cui si poteva trovare qualche cosa in superficie od in un solco di un aratro sono ormai, suppongo, del tutto passati. Sono stato esaudito solo in parte, ma alla luce dei fatti debbo dire che il tempo mi ha insegnato  effettivamente quale è il vero “tesoro”. Quello più nascosto e prezioso è racchiuso probabilmente in quello che sto per raccontare e cioè nell’’esperienza vissuta e soprattutto nelle persone che ho incontrato. Mi è difficile anche spiegare perché ho iniziato, sicuramente avevo un gran vuoto da colmare, una grande sete di conoscere il mio passato, una irrequietudine profonda data dalla necessità di creare rapporti veri e pacati spiegando a me stesso  e ad altri dove viviamo, come erano le cose prima di noi e  magari  come poter affrontare il futuro con le scelte migliori per noi e per le nostre amate montagne: si è trattato dunque di una grande corsa molto spesso solitaria. Fra gli aspetti che più mi hanno attratto possiamo citare sicuramente il gusto artistico espresso dall’uomo ancora prima che inventasse un linguaggio articolato: la presenza di monili raffinatissimi nei corredi tombali lo testimonia inequivocabilmente; il senso del bello e dell’armonia espressa anche attraverso la scelta di appropriati luoghi di culto; il legame  anche con l’ambito spirituale, la ricerca dell’immortalità ed in tempi diciamo più recenti l’approfondimento del pensiero umano (i greci tramite la filosofia erano giunti ad ipotizzare l’esistenza dell’infinitamente piccolo, cioè dell’atomo) ed ovviamente l’evoluzione tecnica, incominciando da quella del fuoco, 450.000 anni orsono. Dobbiamo tuttavia ricordare che tutto questo non è stato disgiunto dalla violenza, dalla sopraffazione di uomo su uomo o di un popolo sopra un altro. Solitamente troviamo le incisioni rupestri, (anche da noi), o gli altari votivi (ultimo grande enigma in bergamasca) in luoghi panoramicamente fantastici: insomma il bene ed il male,  il bello o la cupidigia più sfrenata e le continue innovazioni sia di pensiero che materiali si sono sempre succedute e contrapposte con un divenire inspiegabile  dal quale probabilmente dovremmo trarre un qualche insegnamento: ma qui siamo forse già nel complicato …. perché le cose delle quali vi voglio parlare hanno origini più modeste ma  a volte, come vedremo, anche molto dure. Da poco sto anche affrontando altri due argomenti particolari: le feste sia religiose che popolari …. così finalmente nelle mie immagini compaiono anche persone e non solo montagne, fiumi, boschi o baite, seppure nelle varie particolarità e amore mai sopito, sto rinnovando l’attenzione verso l’espressione artistica rappresentata dai mirabili maestri bergamaschi, con predilezione particolare verso gli affreschi, per quei pochi che ci sono rimasti. Solitamente queste opere sono protette per lo più dalla penombra delle chiese, per cui appaiono al visitatore, salvo alcuni mirabili restauri.  in tinte scure e poco distinguibili. Tuttavia con un poco di esercizio ed un pizzico di fantasia si potrà ridare splendore a quanto si sta ammirando a patto di osservarne con calma i vari particolari. Nella parrocchiale di Cusio ad esempio, sulla sinistra, troviamo una tela con raffigurato  San Alessandro. Nella penombra può sfuggire il fatto che nella parte inferiore del quadro stesso appare una Bergamo, suppongo seicentesca, con il percorso delle mura originale. La porta di San Giacomo compare più piccola di quella attuale, ma protetta addirittura da ben due ponti lavatoi mentre lungo le mura stesse compaiono piccole garitte in mattoni rossi, poste a distanza regolare: di esse ai giorni nostri non ne rimane una sola. La Curia di Bergamo ha svolto, a tal proposito, un importante lavoro di catalogazione, ma ritengo che molti visitatori frequentino le nostre valli ignorando il patrimonio in esse racchiuso,  anche se d’altra parte è pur vero che le risorse in mezzi e persone sono obiettivamente molto limitate. Ma ritorniamo a temi più semplici ricordando  che mi ha molto arricchito la disponibilità incontrata e dimostrata  dalle decine di  persone nelle quali mi sono imbattuto. Persone che non conoscevo, persone che ho incontrato magari una sola volta, persone che non avrei mai più rivisto. Tutte queste  hanno parlato con me come ad un compagno di sempre, come a uno di famiglia e tutto questo in un mondo caratterizzato dalla  fretta e sempre associato al sospetto che il colloquio intrapreso passa nascondere un secondo fine. Questo fatto è il vero  “tesoro” che realmente ho scovato: dunque persone e non cose.

LAXOLO: LA FASCINA IN SPALLA

Una mattina di tanti anni fa sopra Laxolo, vidi un anziano scendere da un piccolo colle, aveva la classica roncola nella mano destra, mentre con la sinistra teneva in equilibrio una fascina di legna sulle spalle. ….risalgo la breve china per incontrarlo e gli faccio qualche domanda. Stiamo così per una buona mezzora, al freddo: lui a raccontare della sua vita, fermo, con la fascina in spalla ed io con la mia macchina fotografica, altrettanto immobile ad ascoltare, mentre il sole pian piano tentava di raggiungerci. All’ennesimo brivido il boscaiolo mi dice: “scolta, e sen’dess a bif ù bicer là al me rocol che l’è al sul?” Sinceramente non mi rammento esattamente la trama  del discorso, ma sicuramente quel momento,  lui col suo dire ed io con il mio ascoltare, lì fermi al gelo entrambi, anche se a pochi passi il prato era assolato, non me lo scorderò mai. 

SAN GAETANO DI ZOGNO: IL “BASOL”

Un’altra mattina, sempre di tanti anni fa,  mi trovavo nella piccola frazione di San Gaetano posta sopra Zogno: luogo assai ricco di testimonianze legate alla preistoria. La giornata era ancora una volta pessima, il pendio appariva avvolto dalla nebbia e piovigginava: non per questo avrei rinunciato alla ormai consueta ricognizione domenicale: vi è sempre qualche cosa di nuovo da vedere. Giunto nei pressi di una baita  sento alcuni rumori: qualcuno lavora all’aperto a dispetto del gelo. Buon giorno come va? “Isè isè”, risponde un signore attempato mentre sposta legna da una parte all’altra dell’altra cascina: scorta per l’inverno? “certo, senò come s’fa che”. Incomincia così uno scambio di battute: io in piedi con ombrello e macchina fotografica e l’altra persona incurante dell’acqua, con l’accetta in mano. Parlammo  di tante cose: del bosco, degli alberi selvatici, delle faine che prediligevano il suo pollaio ecc. Ad un certo punto mi sento dire: “senta al ghe pias chel laur chè? Al ciape lù, seno i mé fioi al mel brusa”; i sui figli avrebbero bruciato l’oggetto che mi stava porgendo. Si trattava di un regalo sicuramente insperato, carico di passato, di fatiche ma anche di speranza che qualcuno potesse conservarlo con il dovuto rispetto e questo rispetto avrei dovuto mettercelo io. Mi donò un “basol” in legno, un poco tarlato, ma ancora in buone condizioni, utilizzato da sempre per trasportare secchi di acqua o latte. Non ho più incontrato quella persona, mentre  il “basol” ben incerato fa bella mostra di sé in casa mia: ma al di là del contenuto storico dell’oggetto,  ciò che vale è stato il gesto spontaneo ed il desiderio di tramandare un pezzo di vita attraverso un dono gratuito fatto ad uno sconosciuto.

ZOGNO IL SALICE, IL DIAVOLO E LA SIGNORA IN VESTAGLIA

Quella mattina era proprio quella giusta per  scattare buone foto: quando la giornata è proprio quella giusta, lo senti, è come se suonassero mille campane tutte assieme. Una volta ho aspettato la giornata giusta per un anno, volevo fotografare il “Castello Rivola” di Comonte con alle spalle il Monte Misma e nel cielo ovviamente non mancava qualche nuvola striata: ero appena tornato dalla Corsica ed avevo ancora le valige in macchina: non potevo aspettare, tutto era come desideravo da mesi e sono corso sul posto per immortalare quel momento unico. Quella mattina dicevo, stavo salendo da Zogno verso San Antonio Abbandonato. Lungo la mulattiera vi sono molte frazioni composte  da una chiesetta, qualche “santella”, un pugno di case alcune delle quali diroccate, una fontanella, fienili, scampoli di pascolo, a volte qualche pecora, qualche mucca e non manca mai un cane che magari, scodinzolando, ti segue per tutta la giornata. Ad un certo punto la mia attenzione viene attratta da un cascinale ben tenuto con fiori rossi ai balconi e soprattutto con oggetti della via contadina appeso ordinatamente sulle pareti esterne. Quella casa, già a vederla così mi  trasmetteva  una sensazione diversa dal solito. Buon giorno, come và?,  su di un balcone, una signora, nonostante i sui “capelli bianchi” riassettava con vigore alcune stanze. Per nulla turbata contraccambiò il saluto, era ancora in vestaglia ma l’aria primaverile, sebbene fosse abbastanza presto, non era fredda. Notando la mia aria incuriosita e la macchina fotografica disse: venga che c’è qualche cosa da vedere. Aprì una bauletto in legno con diversi ripiani, dentro vi erano un sacco  di insetti: ragni, lucertole, api, ragni, tutti erano in ferro battuto. Non potevo credere ai miei occhi: chi mai poteva aver lavorato il ferro in quel modo. Poi mi fece visitare l’interno del cascinale: lungo i corridoi vi erano disegni e schizzi che raffiguravano specialmente oggetti sacri: “ questi sono gli studi del signor Tironi” mi disse. Il signor Francesco Tironi, classe 1888 aveva imparato dal padre, un fabbro, la capacità di lavorare il ferro trasformandola in arte e siccome,  come detto nell’introduzione, nel mondo esiste il bene ma anche il male, oltre a tante rappresentazioni legate alla fede, fra le sue opere, quella mattina   vidi  anche un diavoletto in ferro battuto assai ben fatto. Ammirai anche un salice ottenuto da un unico massello di ferro. Ho “incontrato” metaforicamente il Tironi poco tempo fa in un suo affresco nel piccolo borgo di Benago, ma si può ancora ammirare qualcosa di suo nella parrocchiale di Sedrina: lui forgiava di tutto perche ogni cosa nel creato rappresenta l’opera di Dio e quindi anche ragni e altri insetti sono degni di essere rappresentati: certamente un bel messaggio.

SALMEGGIA: POLENTA, SALAME E PANNA

Quando si studia un territorio si pensa ad una meta ma solitamente non la si raggiunge quasi mai o meglio non proprio quel giorno, perché intervengono sempre molteplici fattori che fanno deviare dallo scopo prefissato. A volte, come mi è accaduto ai Prati Parini o alla “Rua Bassa” sempre sulle pendici del  Canto Alto,  ho rifiutato con dispiacere l’offerta di dormire in baita da parte di famiglie conosciute il giorno stesso. Certo  ti dovevi accontentare di un letto di paglia, ma a volte basta la sola proposta, tanto spontanea quanto inattesa per trasformare un ambiente  in un albergo a cinque stelle. Anzi sempre a proposito di imprevisti e di cose inattese certamente non potrò mai dimenticare l’invito di una famiglia di Salmeggia. Vi ero salito da Lonno con lo scopo di individuare un antico percorso che da li, scendeva direttamente ad Albino disegnando una larga spirale dalla pendenza costante. Nel piccolo borgo incontro un anziano sull’uscio della sua abitazione intento a godersi un bel sole primaverile. Scambio alcune battute e di parola in parola arriva ben presto mezzogiorno: “scolte, cosal dis de fermas chè a mesdè?”. La famiglia era tutta attorno alla tavola in gioiosa e trepida attesa, era bello essere contenti aspettando una polenta fumante accompagnata da un indimenticabile intingolo a base di panna e da un altrettanto indimenticabile salame che non potevano essere più nostrano di così. Un piatto semplice, un piatto secolare: io non avevo niente da offrire ma avevo ascoltato con interesse un vecchio che si godeva il caldo del sole: forse questo poteva bastare. A proposito, quella volta mia moglie si arrabbiò tantissimo, anche lei mi stava aspettando per il pranzo.

IN VAL TALEGGIO

Lo studio di questo territorio  ha  rappresentato per me l’esperienza più dura, non solo perché per ben tre volte ho rischiato di non tornare a casa: mi raccomando non abbandonate mai i sentieri segnalati se non siete in compagnia di chi conosce perfettamente questi luoghi; ma anche per l’esperienza che mi hanno trasmesso le persone qui incontrate. Ho percorso diverse volte la  Valle Asinina con un anziano di Ca Corviglio:  a distanza di più di vent’anni si ricordava esattamente l’ubicazione di alcune baite disperse in un’intricata ed abbandonata vegetazione. Nel camminare mi raccontava i vari fatti di questa recondita parte di valle, dandole vita e mostrandomi come in luoghi del tutto inaccessibili, carbonai e boscaioli lavoravano comunque. Un giorno abbiamo visitato una  grotta in sponda sinistra dell’Asinina dove venivano mandati gli appestati: quella volta mi disse: io qui non tornerò mai più, ma io non capii. Nell’ultimo dei nostri incontri, considerato il mio stupore nel guardare un oggetto che cercavo da sempre , me lo  regalò. Si trattava di un piccolo incudine per battere la falce: un pezzo ormai introvabile. In autunno questa persona era “andata oltre”. Si era spenta velocemente rapita da un male subdolo ed incurabile: tuttavia con il suo lavoro aveva contribuito alla ristrutturazione della bella chiesetta del borgo e questo è un messaggio incredibile perché attraverso la passione, a volte, si può fare di più che con il denaro.

Purtroppo, legato a questi luoghi ho un’altro ricordo particolarmente  duro ma comunque significativo. Questo nuovo incontro è avvenuto in un luogo abbastanza singolare: un ospedale, quello di Ponte San Pietro. Entrambi eravamo ospiti della struttura, io per un problema serio ma  risolvibile e quest’altra persona per decidere della sua vita: doveva infatti scegliere se non effettuare alcun intervento e porre termine in breve tempo alla sua esistenza o trasformarsi praticamente in  un vegetale e vivere più a lungo. Ci presentammo solo per nome ed incominciammo a parlare ciascuno delle proprie esperienze: mi raccontò delle povertà, della fame, delle restrizioni subite, dei mille lavori. Ad un certo momento, mentre stavamo per lasciarci, mi parlò della sua mucca; la sua mucca si chiamava”gentile”: per chiamare così quella bestia voleva dire avere una radice molto profonda avvinghiata tenacemente al territorio che nonostante le moltissime difficoltà gli ha comunque permesso di metter su famiglia ed  avere figli: non potrò mai dimenticare quella persona, che nella sua semplicità e nel suo dolore dimostrava ancora, nonostante tutto, amore per le cose semplici.

GLI ZANI DI DOSSENA

Vi sarebbe ancora molto da raccontare ma voglio concludere con qualche cosa di più sereno ed allegro. Come sopra detto da quest’anno ho incominciato ad interessarmi di manifestazioni popolari, così mi è capitato di seguire gli Zani nel carnevale ambrosiano di Valtorta, nella “chiamata” e nella successiva  “scacciata” di marzo a Dossena. Purtroppo sempre nello stessa località ed ancora in marzo Il “Madonù”, non è uscito dalla magnifica parrocchiale a causa del maltempo. E’ da notare che il Carnevale ma anche le altre due manifestazioni si rifanno a  tradizioni popolari pagane antichissime. Anche in questo caso si è trattato di un incontro casuale, ma la curiosità conduce sempre da qualche parte e così la sera stessa della “chiamata” ero a tavola con i due simpatici coniugi. quì l’allegria è di casa. Durante i preparativi ho assistito ad una cosa incredibile; il marito, praticamente stava “accordando” fra di loro ben cinque corna di “bech”. Il bech, è il maschio della simpatica capra, in questo caso ovviamente strettamente di razza” orobica”. I cinque “strumenti” emettevano ciascuno una nota ben definita ed era effettivamente possibile trarne una melodia: una cosa del genere ha sicuramente del geniale, poi la festa è iniziata ed è proseguita in un frastuono incredibile con decine di campanacci suonati contemporaneamente e vi assicuro chi assiste per la prima volta rimane  “sonoramente” colpito. Decine di persone raggiungono le varie contrade agitando i campanacci che tengono in vita, salutando in questo modo l’arrivo della primavera e quindi della vita che, dopo il lungo inverno, riprende il proprio corso.

A questo punto però mi sorge spontanea una domanda: dalle cose più semplici sino alle manifestazioni d’arte più raffinate o di fronte a situazioni storiche anche di imprenditoria come quella dei Tasso o di comando come la storia ci tramanda per il Colleoni, ma sono solo esempi, mi chiedo effettivamente da dove arrivano tutte queste capacità che notoriamente rimangono ai più nascoste?. Insomma dopo tanto cercare mi chiedo ancora effettivamente chi siamo noi bergamaschi e forse non troverò mai risposta.

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